Sull’epoché e la caccia ai falsi artisti

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Sin dai tempi dell’università, mi ha sempre colpito tantissimo il concetto di “epoché” del filosofo tedesco Edmund Husserl, al centro delle sue “Investigazioni logiche” pubblicate nel 1901. Si tratta di una “sospensione di giudizio”, di quell’atto riflessivo che ci spoglia “dai vincoli più forti e più universali e perciò più occulti, dai vincoli dell’essere-già-dato del mondo”. 

Detto in maniera meno complessa: l’epoché è un atto che cambia il nostro sguardo e ci mette dinanzi alla nostra coscienza. Una posizione mentale che ci mostra come “tutto ciò che poco prima era stato assunto come ovvio costituisca un’ingenuità”. Mi sono trovata a mettere in azione questo strumento - donatoci da diversi filosofi e reso per me affascinante solo grazie a Husserl - in più momenti della mia vita. Dinanzi a scelte importanti, a confusioni e mix tra i pre-concetti dentro di me e ciò che intuivo mi corrisponda di più, mi sono trovata più volte a “sospendere il giudizio” da ciò che pensavo di “dover fare” “dover pensare” “dover scegliere” e di chiedermi semplicemente cosa avrei voluto fare. Fossi davanti a Dio, con nessuno accanto, cosa avrei scelto di fare? Quante scelte saremmo in grado di prendere in base a ciò che pensiamo sia più giusto fare! E quanto ci sentiamo invece salvati dal momento che ci iniziamo a rendere conto della nostra unicità. Per anni ho usato l’espressione di “abito fatto su misura” per dire che non posso accontentarmi di un percorso pre-confezionato, omogeneo per tutti. 

Questo stesso ragionamento lo vorrei ricollegare alle critiche nei confronti degli artisti “indipendenti” (musica indie, poeti “emozionali”, artisti iper-contemporanei). 

Sì, è vero, anche a me dà fastidio quando mi dicono che un paio di occhiali abbandonati in un angolo di museo sono considerati opera d’arte o quando due schizzi su una tavolozza vengono venduti a milioni di euro. Anche quando parliamo della potenza di due versi scritti di getto e diventati i più “instagrammabili” del decennio i grandi poeti si rigirano nella tomba. Siamo tutti d’accordo, ma penso che chi non sia mai stato vinto dalla forza indescrivibile dell’arte, non capirà mai la potenza misteriosa che vi abita. 

L’epoché cosa c’entra con questo ragionamento? Che non possiamo fermarci ad un “essere-già-dato” nel mondo: un concetto prestabilito di arte, di poesia, di musica che imprigiona le forme divine dell’arte. Umilmente dico che se ho capito una cosa dall’essere stata una persona creativa ed espressiva per tutta la mia vita è che ci sono degli attimi in cui la natura, il divino, la vita - ciascuno metta il suo credo - sfruttano l’artista come profeta di un certo messaggio. 

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La schiavitù dentro la quale costringiamo certi scrittori e artisti ci allontana dal “bisogno” che c’è dentro all’arte. Come dice il mio maestro Rainer Marie Rilke in “Lettere a un giovane poeta” (che io considero la mia bibbia di scrittura), scrivere è un “penetrare dentro se stessi”, vinto da un senso di necessità, come il bere e il mangiare. Se costringiamo questo penetrare dentro se stessi a prendere una determinata forma e definire certe cose in un determinato modo, che rappresentanza dell’umano potrà avere? 

Mi inginocchio dinanzi a chi ne sa più di me e chi ha dedicato la vita a questa ricerca di senso nell’arte. Ma la cosa che non posso negare è la verità di alcune parole, di alcune sensazioni rappresentate da artisti per molti troppo “indipendenti”. 

Rupi Kaur, la tanto amata ma altrettanto criticata poetessa indiana di cui ho scritto recentemente nel mio blog, mette su carta, alle volte in maniera molto breve e impulsiva, dei traumi, delle paure, delle ansie, che pochi si sarebbero aspettati di trovare in una forma docile come la poesia. 

Sarò io che mi sento particolarmente rappresentata dalle sue parole e che mi sono commossa per la corrispondenza spaventosa che ho ritrovato nei suoi versi crudi, nella sua definizione di relazione affettiva, nelle sue angosce a timori, ma non criticherei mai una giovane ragazza che ha il solo “peccato” di aver messo su carta ciò che la vita le richiedeva - quasi costretta a farlo da una necessità maggiore chiamata “arte”. 

Io sto con le persone come lei che non hanno paura di dire che è questa la svolta del 21esimo secolo: non ci basta più l’astratto, non vogliamo più la perfezione analitica, la rappresentazione divina. Abbiamo bisogno della crudità del quotidiano, di parlare della merda di alcune situazione e di riuscire a portare persone a comprare un libro di carta per il fatto di aver bisogno di un confronto con una persona così umana. 

Ovviamente Jackson Pollock ha avuto il successo che ha avuto perché era il primo a rivoluzionare la tela, a stuprarla del suo senso, a sconvolgere i dotti critici del suo tempo, ma adesso lo ritroviamo nei manuali come il leader di un movimento di espressionismo astratto.

Non preoccupatevi di fare la caccia ai falsi artisti - penso che se uno mentisce dinanzi alla natura e alla forza dirompente dell’arte fingendosi artista, creperà come necessario perché l’arte, in tutte le sue forme, è una forma di obbedienza a qualcosa di immensamente più grande di noi. E se uno fingesse di essere vinto da quel sovra-umano, ce ne renderemmo tutti conto. Intanto, per favore, se una cosa non vi sembra all’altezza del vostro credo, non la frequente. Lasciatene di più per noi ignoranti. 



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